Nelle pagine che seguiranno, cercherò di intrappolare il mostro nella tela concettuale che andrò tessendo. A tale scopo utilizzerò una buona esca: Frankenstein. Cosa ha evocato, questo nome, nella mente del lettore? A tutte le persone a cui ho rivolto la stessa domanda, la risposta è sempre stata una: il mostro. E' curioso come avvenga che si pensi a Frankestein come al mostro, quando in realtà, Frankestein è il nome dello scienziato che lo creò. Ma cos'è un mostro. In senso generale un mostro è un prodigio, un portento, l'animale o l'essere umano il quale eccede o difetta di qualcosa. In base a ciò, infatti, secondo Aristotele le donne erano mostri in quanto mutilate, mancanti d'un pezzo. Ma, se guardassimo la cosa dal punto di vista femminile, potremmo ben dire che è l'uomo un mostro poiché avanza d'un quid.
Approfondendo, invece, scopriamo che per essere mostri non basta avere o essere qualcosa in più o in meno, ma bisogna che ad averla sia uno solo. Dunque ciò che caratterizza il vero mostro è la singolarità: "Infatti, proprio la singolarità, caratterizza il mostro molto meglio di ogni altra cosa, poiché, di fronte al gigante o al nano, non sono le dimensioni che ci impressionano; piuttosto l'improvvisa, inaudita interruzione di un assetto che sino ad allora si era creduto inviolabile" (cfr. F. Gonzalez-Crussi ). Dunque la singolarità, cioé l'essere singolare, che si riferisce al singolo, e quindi ad un essere solo: " Non si è minotauri nella stessa maniera in cui si è idropici; la descrizione di un minotauro dipinge un ritratto che appartiene ad un essere soltanto... Il mostro è solo" (cfr. Eugenio D'Ors ). E guarda caso, la solitudine è uno degli elementi principali del romanzo di Mary Shelley: "Frankestein". La solitudine di Walton, l'esploratore; quella del giovane Victor Frankestein, lo studioso scienziato; quella della creatura orribilmente assemblata; e quella della stessa scrittrice, in qualità di scrittrice. Mentre quella della scrittrice è una solitudine che genera mostri, la singolarità del mostro (colui che è stato generato dalla solitudine) genera ostilità e avversione che mantengono il mostro in solitudine, alimentando così la sua singolarità, ovvero mostruosità. Dunque la solitudine è generatrice di mostri. Nella solitudine siamo a tu per tu con noi stessi, con le parti buone e cattive. Singolarmente, però, in solitudine non tendiamo a valorizzare i nostri lati positivi; emergono invece quelli negativi. Naturalmente, non sto certo parlando di una solitudine del momento, di quella pausa che dedichiamo a noi stessi per riordinare le idee, si chiaro, sto parlando di una solitudine protratta nel tempo, quella che diviene non stato spaziale, ma stato dell'anima. Un asceta in cima alla montagna, è da solo, ma non è solo; mentre l'uomo che soffre di solitudine, è maggiormente solo in una folla di persone. Solo l'intervento dell'altro è in grado di tirar fuori, di educere le qualità migliori in noi; e sempre l'altro può alimentare, edere, in noi l'amore. Dalle radici latine testé impiegate, si capisce che si tratta di una questione di educazione. Così, in isolamento, diamo vita ai mostri che altro non sono che le parti di noi con le quali non vogliamo identificarci, le ammassiamo su un capro espiatorio che avrà la forma della somma dei nostri difetti. Mi viene in mente quel detto: "Il Diavolo non è così brutto come lo si dipinge"; già, potrebbe essere peggio. Anche se nel romanzo non è esplicito, i vari arti con cui viene assemblata la creatura provengono da cadaveri di criminali, di emarginati e di rifiuti della società; salme, queste, che venivano solitamente fornite alle università per gli studi degli anatomisti dell'epoca. La creatura di Frankestein è il crogiolo dei mali dell'umanità prodotti dalla solitudine; e come si saprà, i criminali, gli emarginati ed i rifiutati dalla società non sono grandi viveur. E' curioso, ma non casuale, come del protagonista non si faccia nome se non dopo la realizzazione dell'ambizioso progetto, il traguardo raggiunto: la vita della creatura. Quasi che l'autrice volesse dare un solo nome ad entrambi i personaggi. E' come se in quel momento nascessero entrambi. E Frankestein è un nome abbastanza lungo da servire per due. Psicologicamente parlando, il creatore e la creatura sono la stessa persona. E noi da lettori e spettatori di films non abbiamo faticato ad identificare la creatura col nome di Frankestein, spostando così le caratteristiche dell'una sull'altro. Tutto è avvenuto senza pensarci, inconsapevolmente. Con ciò diamo anche prova di saper intuire da dove il male proviene realmente, dando a questo il suo vero nome. Questi processi psicologici di identificazione, proiezione e spostamento, sono favoriti da una caratteristica fondamentale del mostro di Frankestein, presente anche nel Dr. Jekyll e Mr. Hyde, che impariamo dall'analisi teratologica fatta da Henri Baudin; egli distingue due tipologie teratologiche: il mostro in quanto totalmente differente e il mostro in quanto quasi simile. Nel primo caso la minaccia proviene da luoghi, emozioni, tempi a noi del tutto estranei come nei casi di creature provenienti da, che so, Giove; capite bene che identificarsi con una creatura del genere che ha otto tentacoli e tre dhugil è piuttosto difficile. Nel secondo caso, invece, la minaccia viene da esseri che potrebbero confondersi benissimo tra noi o, come nello specifico del mostro di Frankestein, avere attributi del tutto umani. Egli è dunque un quasi simile, e su di lui la proiezione trova terreno fertile. Nel romanzo della Shelley si esplica completamente l'esperienza umana del doppio. Non solo il doppio è opposto di buono e cattivo, civile e selvaggio, colto e ignorante ricamati sui personaggio del romanzo, ma anche il doppio-opposto di maschile e femminile rappresentato dal fatto che la scrittrice, donna, proietta sul narrato, evocandolo dal profondo, il suo animus, cioè il suo lato non predominante, ma esistente, maschile. Dunque la scrittrice, nell'atto solitario di scrivere, evoca i suoi "fantasmi" e li traspone in lettere, in parole, in rapsodie. L'analisi del romanzo, come anche le considerazioni teratologiche generali, e anche le implicazioni sociali, o l'attualità, per non dire l'eternità di certi argomenti, forniscono materiale per una infinità di riflessioni, saggi, libri, altri romanzi ecc.. Basti pensare che, a rigor di logica, ovvero se tutto ciò che ho scritto sin qui è corretto, non Dio che è una singolarità creò l'uomo, ma l'uomo, il primo uomo in solitudine creò Dio; Dio che fa appunto parte della tipologia dei quasi simili in quanto l'uomo lo creò a sua immagine e somiglianza. Ma, spero di essere riuscito a cogliere gli elementi fulcro, i punti dai quali si può partire, ma ai quali poi si torna; e dunque qui terminerei questa mia disamina, anche perché comincio a sentirmi un po' solo…